mercoledì 30 ottobre 2013

Una sfida

L'altro giorno ho finito di leggere un libro di un bravo scrittore. Sottolineo bravo per due ragioni. 
La prima, penso che Paolo Zardi sia bravo davvero, ha una certa onestà di stile che fa prendere un ritmo equilibrato alla scrittura, un'andatura tranquilla, che non promette niente e non dimentica niente, va dove deve andare e non è mica facile.
La seconda, per mettere le mani avanti: le considerazioni che verranno di seguito non vogliono attaccare il suo ultimo lavoro, piuttosto nascono da questo.

Il giorno che diventammo umani è una raccolta di racconti, le raccolte di racconti a mio avviso sono qualcosa di prezioso. La perfezione di una collana di perle deriva dalla perfezione di ogni singola gemma, così devono essere i racconti contenuti in una collezione. Devono essere perfettamente rotondi e allo stesso tempo ciascuno deve essere la ragione dell'altro.
Ecco.
La raccolta di Paolo parla di legami, perlopiù famigliari, fotografa la vita e tutta la sua malinconia.
Finché leggevo gli ho mandato un sms, i tuoi racconti hanno una sfumatura emo, gli ho scritto, lui mi ha chiesto emo in che senso. 
Paolo, ora te lo spiego.
Ricorrono continuamente una serie di fatti negativi- cancro, malattia, tradimento, sesso frustrato- che con l'insistenza con cui vengono proposti finiscono con lo sfiancare il lettore. Questo potrebbe essere stato il tuo intento, certo. Ma io chi esprime troppo spesso un sentimento ricorrendo alla sfiga e alle scopate lo sospetto parecchio. 
Argomento meglio.
Alcune tematiche, categorizzabili nelle grandi macroaree morte e sesso, attirano il lettore a prescindere dal modo in cui sono raccontate, perché purtroppo innescano una curiosità morbosa che fa proseguire la lettura non tanto per la qualità della scrittura, che passa totalmente in secondo piano, quanto piuttosto per sapere come va a finire, muore? si sono baciati? Tutto il resto scompare.
Quando ero adolescente, come la maggior parte degli adolescenti, credevo che per essere interessante dovessi essere anche problematica. Lo sono stata e ho sprecato del tempo. Una conquista dei vent'anni è stato capire che se hai talento puoi smettere di recitare una parte.

Ora. Attenzione, il rischio che ha corso Zardi e che ha evitato per un pelo grazie alla qualità del suo stile, è quello di essere noioso e stucchevole. Uno meno capace avrebbe probabilmente prodotto un surrogato di Cinquanta sfumature di grigio, magari pretendendo di passare per l'intellettuale dannato, arrivato sulla terra per mettere nero su bianco il dramma del nostro tempo.
Ok. La facilità del male la raccontano in tanti, perché in pochi si misurano con la reale complessità del quotidiano?

Quando ho terminato il libro ho scritto una mail a Zardi, lanciandogli una sfida. Vorrei che mi scrivessi un racconto breve, gli ho detto, che però:

-non contenga sesso, morte, malattia, bambini 
-sia felice senza essere banale
-sia ipoteticamente inseribile nella sua ultima raccolta 

Lui mi ha risposto ironico, con una citazione di P. Roth: niente sesso, niente morte, niente malattia e niente bambini. Di cosa devo parlare? Del panorama?

Se Roth non fosse il genio della scrittura che è (leggete il Teatro di Sabbath), probabilmente farebbe il direttore di Studio Aperto. 

Paolo ha accettato la sfida.

martedì 22 ottobre 2013

I vivi

Quando arrivava il giorno dei morti potevo tirar fuori dall'armadio il paletot da festa perché secondo mia madre solo allora era abbastanza autunno, prima potevo patire il freddo nella giacca da mezza stagione.
Caricava in macchina me e Serena, andavamo a dire una preghiera sulla tomba dei suoi genitori e poi su quella dei suoi nonni. Al cimitero guardavo i fiori degli altri per capire se erano più belli dei nostri.
Mia mamma sceglieva sempre i crisantemi bianchi e i ciclamini rosa, così la nostra tomba si adeguava alle altre senza distinguersi, l'ho sempre trovata una scelta noiosa. Io e mia sorella facevamo a gara per andare alla fontana e riempire di acqua una delle bottiglie di candeggina Ace impilate vicino all'entrata.
Si andava a pranzo dagli zii di mio padre. Mio padre ci aspettava lì, insieme a suo cugino, si trovavano la mattina presto per cucinare l'arrosto di uccelli e la polenta onta, chiamarla polenta fritta non rende abbastanza. C'era una tavola lunga, quella degli adulti e poi un tavolo sull'angolo, quello dei bambini. Il caminetto rimaneva acceso tutto il giorno. 
Gli adulti bevevano il vino, noi piccoli facevamo gara di rutti con la Coca-cola, non ci sentiva nessuno tanto c'era chiasso. Ci raccontavamo quanti dolci avevamo guadagnato la notte di Halloween, afferravamo con le dita la polenta con la crosticina dorata, mettevamo in bocca tutta la fetta per prenderne un'altra subito dopo, avendo paura che finisse troppo presto.
Il pomeriggio ci chiudevamo nella sala del biliardo. Ciascuno aveva la sua stecca per colpire le palle alla meno peggio. Io giocavo a biliardo perché mi piaceva mettere il gesso blu sulla punta dell'asta e sentire il rumore delle bocce quando entravano in buca, spesso le infilavamo con le mani.
Verso le cinque eravamo reclutati per sbucciare le caldarroste, che venivano tenute al caldo dentro una coperta di lana infeltrita. Le unghie si sporcavano di nero e così restavano per giorni. Presto iniziava la tombola. Ciascuno aveva la sua cartella e una manciata di fagioli secchi. Perdevamo sempre, così senza farci vedere strisciavamo nella stanza col pianoforte a coda e i tappeti persiani incollati alle pareti, ci venivano le labbra scure perché là il riscaldamento rimaneva spento. Giocavamo a nascondino ed era sempre mia madre a trovarci per metterci il cappotto e dirci che era venuta l'ora di tornare a casa-l'unico momento mortalmente triste di tutta la giornata.

Adesso che il cielo è un enorme nuvola grigia ho voglia di polenta, di paletot, e castagne. Andremo al cimitero e faremo un giro sempre più lungo, i morti ci aspettano come sempre, i vivi sono a ricordarsi, lontani.




giovedì 17 ottobre 2013

Le letterine

In viaggio verso Padova, treno. Temperatura interna 28 gradi, fuori è una bella giornata autunnale, lo sbalzo termico liquefà istantaneamente tutto quello che ho nello stomaco, per sicurezza mi siedo vicino al bagno.
Leggo, tanto per cambiare. Leggere in treno è una delle cose più rilassanti che ci sia. Fino a quando arrivano loro.

Due ragazze di ventidue anni, una coi capelli rasati sul lato destro, l'altra con gli occhiali da sole grandi come schermi di un televisore, non se li leva mai. Parlano a voce altissima, chiudo il libro e lo rimetto in borsa, tutto il treno si ferma ad ascoltarle.

-Eh, Giulia, mi sono iscritta a Storia del melodramma. Un vomito che non ti dico!
-Lo so, lo so. Fate Metastasio?
-No, no. Magari. Mozart. Fa cagare.
[dice cagare scandendolo bene, il bigliettaio si volta, io mi vergogno per loro. Una delle cose che voglio fare prima di morire è cantare il Requiem di Mozart, che adoro]

-Io invece ho deciso dove farò la specialistica, Bologna, dice l'altra. Non è che abbia visto la facoltà, sono stata in giro con un mio amico e abbiamo bevuto tantissimo, a Bologna si beve tantissimo, così cambio università. E poi faccio il Ditals e vado insegnare all'estero.
-L'ita? Fa la regina della notte. Che cazzo è l'ita?
-Bah, una cosa con cui insegni  l'italiano in tutto il mondo.
[illusa]
-L'unica cosa che spero, è che non mi mandino ad Addis Abeba. Oddio mi piacciono i negri perché sono messi bene e magari ci andrei, però non vorrei presentare il curriculum in Francia e poi ritrovarmi in Congo.
-Addis Abeba non è mica in India?
-No, risponde l'altra. E' la capitale del Congo.
[Etiopia, dio la madonna, Etiopia]
-E insomma, prenderò il Ditals e me ne andrò da questo paese di merda. All'estero col Ditals ti prendono ovunque.

Decido di intervenire. Guardate, sono laureata in lettere, ho il Cedils, che è la stessa cosa del Ditals, non funziona esattamente così...

Mi prendono in simpatia e alzano ancora di più il volume della voce.

-Che bello, mi dicono, e in cosa ti sei laureata? Io la tesi l'ho scritta in 28 giorni, ho scelto un prof che neanche l'ha letta, ci ho messo di più a prendere il treno per portarla in segreteria che a scriverla.

[Penso all'anno di ricerche piegata sui libri a martellarmi il cervello e non so chi delle due sia stata più cretina]

Poi l'altra mi guarda e mi chiede. 
-Non so se ti capita di pesare con chi di loro andresti a letto...
-In che senso, chiedo io, parli dei professori?
-Ma noooo, mi dice lei, degli scrittori! Io ad esempio mi farei Alfieri, dev'essere stato un porco assoluto, ci penso sempre quando lo studio. Un porco come me.
[ok, ho deciso chi è la più cretina]
E continua.
-Tipo che Leopardi non me lo farei mai, lo lascio alle seghe con Silvia. Ugo invece, avrà scritto anche i Sepolcri, ma era un avventuriero. Mi farei tutto il Kamasutra con Foscolo, poi probabilmente scapperebbe. Ma chissenefrega in fondo, no? Siamo giovani!
[Ugo Foscolo: 1778-1827, definiscimi il concetto di siamo e poi quello di giovani]
-Ti sei mai fatta un professore? mi chiedono. Dicono che gli assistenti abbiano un mazzo tanto.

Io credo che ieri diversi letterati si siano rivoltati nella tomba. Per un attimo le vedo fra vent'anni, a ricreazione, a guardare il sedere dei loro allievi. Ti sei mai scopata un alunno?
Mi chiedo perché la parola selezione in Italia faccia paura. Perché sia permessa solo nelle scienze. Penso a noi, futuri insegnanti di lettere, ammucchiati a prenderci a scazzottate per una cattedra, magari usciti tutti con il centodiecielode. Tanto le tesi si leggono solo se capita.
Se ci fossero i benedetti test di ammissione e più bocciature durante il percorso, forse adesso il ministro della pubblica istruzione non dovrebbe perdere tanto tempo a inventare clausole per non farci accedere ai concorsi pubblici, visto che siamo in troppi.

Quando ci salutiamo mi baciano e mi dicono,

-Ciao, aggiungici su facebook che così possiamo condividere le nostre vite di LETTERINE!

[Statene certe. Ciao ciao, good bye]




venerdì 4 ottobre 2013

Furore

Da un paio di mesi faccio parte nuovamente di quel 40% di giovani costretti a casa. E visto che non ho un'entrata fissa devo darmi una regolata con le spese. Anche con i libri. Comprare meno libri è un brutto segno, ma in Italia ultimamente i brutti segni sono dappertutto.

Il fatto che io compri meno non significa che io legga meno. Anzi. Riconsidero quei classici che per mancanza di tempo o per pigrizia avevo abbandonato sugli scaffali della mia libreria, lasciando che si prendessero la polvere visto che non pulisco troppo spesso.

Furore non l'avevo ancora letto perché i miei, soprattutto mio padre, insistevano troppo nel consigliarmelo. Lo rifiutavo per principio. Di Steinbeck avevo amato Uomini e topi, ormai sono passati quattordici anni da quando al ginnasio avevamo dovuto scrivere la recensione.

Furore è considerato un classico del Novecento, racconta la storia di una famiglia di agricoltori e del loro viaggio in cerca di fortuna verso e in California.
Quello dei Joan è un pellegrinaggio straziante e senza fine. Non posso fare a meno di scoprire l'attualità amara del racconto di Steinbeck. C'è il lavoro stagionale, che come gli stage o i contratti a tempo determinato, ti condanna a rimanere attaccato alla famiglia, unica possibilità per sopravvivere, per provare a rimettersi in piedi e continuare a cercare.

Sembra che la stessa crisi di allora sia tornata oggi, come la morte, con lo stesso volto.
C'è un passo del libro che mi sono segnata. Dice:

Non faccio altro che ascoltare. E poi medito su quel che sento. Ascolto i poveri parlare, e capisco quanto soffrono. Sai cosa mi sembrano? Rondini rinchiuse in qualche soffitta, che sbattono le ali invano, e picchiano la testa contro i vetri polverosi della finestra.

Ecco. Anch'io guardo le rondini schiantarsi e morire. Rompono il vetro e dietro c'è un muro.

Furore termina con un'immagine pietosa, piena di bellezza e di una miseria commovente. Non ve la anticipo.

Se mai vivremo abbastanza a lungo per essere stormo, ci poseremo insieme sui fili della luce a guardare il colore del futuro che ormai tutti abbiamo dimenticato.