domenica 28 dicembre 2014

Qualche titolo

Questo autunno mi è capitato di andare in libreria e avere soltanto delusioni. Fortunatamente a un ottobre pieno di cattive letture sono seguiti un paio di mesi bulimici, pieni di bei libri divorati con soddisfazione.
Vorrei consigliarvi qualche titolo, così, se siete in vacanza e non sapete cosa fare, potete leggere qualcosa di buono. 

La banda del formaggio, di Paolo Nori è un romanzo di uno scrittore che non avevo mai sentito, piuttosto noto in realtà. Mi è stato consigliato da una persona molto fidata, altrimenti non lo avrei mai preso in considerazione, il titolo mi lasciava un po' così. Una sorpresa meravigliosa. Si racconta il mondo di un editore burbero di cinquantasette anni. Libro poetico, che racchiude sotto la scorza dura dei pensieri del protagonista, una bellezza garbata e fragile. E' diventato uno dei miei libri preferiti di sempre.

Una cosa divertente che non farò mai più è un reportage di David Foster Wallace su un viaggio ai Caraibi a bordo di una nave da crociera. Ogni volta che leggo Wallace penso sempre che abbia un'intelligenza sopra la media, proprio per questo fatico a seguirlo sulle lunghe distanze. Questo libretto è godibile dalla prima all'ultima pagina, soprattutto se in crociera ci si è stati davvero.
Brillante, simpatico, fresco e pieno di humor. La prima notte che l'ho letto poi ho riso a crepapelle durante il sonno, svegliando il povero Marco.

Cattedrale. Sapete quanto mi piacciono le raccolte di racconti. Io Carver non l'avevo mai letto, mi dicevano che ci assomigliavo e allora non mi interessava, sono stupida la mia parte. Adesso che l'ho scoperto, ovviamente mi interessa tantissimo. Cattedrale è un piccolo gioiello. I racconti sono scarni il giusto, ciascuno è un graffio che apre squarci su mondi normali, piccole storie che vengono raccontate con precisione senza mai obbligare il lettore a un'interpretazione immediata. Molto bello anche Se hai bisogno chiama.
Anche se Carver mi piace per la sua semplicità non sono sicura che sia un autore semplice: quando scrive un racconto apre una porta, ma non spiega esattamente al lettore come entrare nella stanza, con quali abiti o quali pensieri.
Einaudi quest'anno ha ripubblicato tutte le opere sue nei Super ET, sicché mi sono comprata anche Principianti e Da dove sto chiamando.

Mi pare sia tutto.
Mi sono accorta rileggendo il post che sono arrivata a questi libri per merito di altre persone.
Morale: fidatevi e lasciatevi consigliare e se potete consigliarmi qualche altro bel titolo, consigliatemelo!

lunedì 15 dicembre 2014

La graduatoria

Per accedere al tfa bisogna superare tre esami.

Il primo l'ho fatto a luglio, il quindici per esattezza. Era una mattina completamente blu, io e Erika non avevamo studiato, lavorando studiare era l'ultimo dei miei pensieri. Così avevo cercato di prenderla con filosofia, avevo proposto alla mia amica di vestirci con la stessa maglietta keep calm and be Barbie, c'era scritto. Io avevo anche il rossetto fucsia.
Come previsto eravamo almeno un migliaio.  Le ragazze sedute vicino al mio posto raccontavano di una app che usavano quando erano in bagno per ripassare le capitali del mondo. Io so a malapena tutte le capitali d'Europa, già se ci muoviamo verso l'Africa comincio a confondermi. Le avevo guardate incerta, non sapendo bene se fosse il caso di vergognarmi per la mia ignoranza o provar pena per la loro secchionaggine.
Abbiamo risposto alle sessanta domande e sulla via del ritorno Erika ha stoppato a Monte Berico per guardare Vicenza senza nuvole.
Evidentemente stavo simpatica alla madonna perché al secondo esame eravamo in duecento e c'ero anch'io. Era novembre ed ero appena tornata da Milano, sfinita. C'era storia, geografia, linguistica e Montale. Ci avevano fatto togliere le merendine dal banco, solo l'acqua, la penna e il foglio.
Al bagno si va solo per urgenze gravi, mi raccomando, ci aveva detto il presidente. Riesco a fare il compito tendendola fino all'ultimo.
E forse qualcuno vuole davvero che io faccia l'insegnante, mi dico, perché miracolosamente passo all'orale.
Ci interrogano a mo' di speed date: quattro professori su un tavolo lungo tartassano ciascuno su ogni materia d'esame. I professori sono rilassati, voi siete i bravi, mi dicono, ormai il peggio è passato.

Supero l'orale e mi sento benissimo. Vado in Feltrinelli e mi compro un paio di romanzi per festeggiare, poi arriva Lorenzo e ce ne andiamo a pranzo insieme. Disseppellisco il futuro di insegnante che in questi anni avevo dimenticato: per la prima volta in tutta la mia vita mi sembra un'opportunità reale.
Pazienza per i 2.600 euro che dovrò pagare di tasca mia per frequentare il tirocinio - un corso che mi abiliterà, ma che non mi darà una cattedra - pazienza il lavoro in ospedale da combinare al pendolarismo. Ce l'ho fatta, mi dico. E comincio a scrivere il primo paragrafo di questo post che oggi non avrà la fine che pensavo.

Sì, perché ieri sono uscite le graduatorie definitive e io sono idonea ma non ammessa.
Significa che ho superato tutte le prove, ma non è detto che entri. Non ci sono abbastanza posti.
Io sono la centoventesima su centodiciassette. Ho lo stesso punteggio degli ultimi vincitori, ma sono più vecchia, quindi scendo in graduatoria.

Mi si contorcono le budella e mi prende la voglia di farmi spiegare da Walter White come si costruisca una bomba.

In segreteria mi dicono che devo avere pazienza. Se ci saranno rinunce sarò tra le prime ad essere chiamata.
Aspetti fino all'otto gennaio e tenga d'occhio il nostro sito perché comunque non la contatteremo, e dovrà immatricolarsi in pochissimi giorni, ah ovviamente se entra.

Se entro.

Cara  madonna di Monte Berico: io credo di esserti stata sulle palle fin dall'inizio, perché questo è un colpo basso che neanche un pugile sarebbe riuscito ad assestare così bene.

giovedì 4 dicembre 2014

Colazioni

In cucina abbiamo un lampadario arancione che fa una luce composta, l'abbiamo scelto quest'estate di comune accordo e quando l'abbiamo montato e ci siamo accorti che non riusciva a illuminare l'intera stanza ci siamo rimasti male e ne abbiamo aggiunto uno di verde.
I due lampadari sono dello stesso tipo, piuttosto pigri si accendono svogliati e per brillare ci mettono un quarto d'ora buono.

Dopo quattro mesi di convivenza è quasi arrivato l'inverno, al mattino scendiamo per la colazione e fuori è buio pesto, si vedono solo gli alberi neri e la strada bagnata. 
Chi mi aveva detto che la convivenza ti fa scoprire aspetti nuovi del tuo compagno aveva ragione.

Accendo la luce per riuscire a mettere il caffè dentro la moka. 
Marco si copre gli occhi ed emette un gemito sofferente, neanche avesse visto Medusa, e si stesse trasformando in pietra. Macchè. Mi dice che la mattina lui ha gli occhi sensibili e che preferisce se restiamo nell'ombra, che problema c'è, Ilaria?

Ora, c'è il problema che io già sono maldestra di mio figuriamoci se proprio non ci vedo. E che la mattina sono subito piena di energie e vorrei condividerle col mondo, mica con Voldemort.

Decido di non badarlo, lascio il lampadario splendere fioco.
Decide di non parlarmi, non mi rivolge la parola fino a sera.

Il giorno dopo accendo la luce. Lui la spegne. Così gli urlo che non ci vedo e lui mi dice che la luce del frigo dovrebbe essere abbastanza per quello che devo fare.
Valuto se tirargli la caffettiera in testa, poi scelgo di piantargli un bel muso lungo. 

Quando il tempo è buono e le giornate sono chiare usiamo la luce naturale, fila tutto liscio. Poi arriva questa settimana e dal cielo cadono i fiumi.

Suona la sveglia, Marco mi abbraccia e come prima cosa mi dice che potrei rimanere a letto visto che sono a casa a preparare l'esame: posso fare colazione da sola, con la luce, dopo di lui. 
Io mi offendo a morte perché gli ricordo che starò sui libri almeno una decina di ore, da sola, a ripetere la prima guerra mondiale al muro, che è piuttosto di poche parole, e che stare con qualcuno di vivo mi servirebbe per affrontare meglio una giornata di merda.

Ci insultiamo. 

Poi arriva la sera, facciamo pace e raggiungiamo un accordo equo: un giorno luce, un giorno buio. 

Ieri era il mio giorno. 
Marco si era calato sul viso un cappuccio di una felpa a righe, beveva il suo thé come l'avrebbe fatto un prigioniero di Alcatraz.
Oggi è stato il suo, buio!, me l'ha annunciato tutto contento scendendo le scale per andare in cucina. Ho versato tutto il caffè sul lavandino.
Se vuoi, mi ha concesso Marco, puoi farti luce col lumino del profumatore per ambienti.

Ora, sapete, io credo che la convivenza più che la via per il matrimonio, mi stia aprendo la via della santità.

venerdì 28 novembre 2014

Crescere

Visto che la mia linea adsl non funziona ed è un periodo pienissimo ripubblico un mio racconto apparso su Grafemi lo scorso anno, scritto per l'amico Paolo Zardi. Spero vi piaccia. A presto!

Crescere

Mi sono sentita disonesta come quando a dirmelo era stata mia madre, che aveva trovato le tasche della mia giacca riempite di Labelli rosa che lei non mi aveva comprato. La differenza tra prendere e rubare ce l'aveva scritta sul viso, sei diventata disonesta, mi aveva detto. Disonesta era una parola da adulti, prima di quella ero stata solo una bambina.

Mi sono scopata tuo marito.
Perché non si può dire che sia stato lui a slacciarmi il reggiseno, me lo sono tolta e basta, allungherà la mano.
L'ha allungata perché è marito da una vita.
Mi era capitato di guardarlo quando parcheggiava la macchina davanti alla fabbrica, avevo pensato che una Twingo bianca fosse un'auto da donna. Dietro, appiccicato al lunotto posteriore, c'era un adesivo fucsia, Teresa a bordo.
Teresa è vostra figlia. Lui la chiama luce dei miei occhi, perché è una bambina che gli somiglia, gli pare di conoscersi di più ogni volta che le parla. Lei gli tocca la barba perché alla sua età la barba la fa ridere. Per Teresa è divertente infilare le mani nelle tasche della sua giacca, il rumore delle forchette quando cadono, disegnare coi pennarelli la parte di muro sotto il tavolo in cucina.
Quando eri più giovane ti piaceva la prima volta che aprivi un ombrello nuovo sotto la pioggia, oggi l'importante è non rovinare la messa in piega.
Quando facevo le medie c'era in classe una Teresa che puzzava di piscio. Si sedeva coi maschi perché le femmine erano dispari, nessuna di noi la voleva avere come compagna di banco, figuriamoci come amica. Dopo la lezione di educazione fisica controllavamo se cambiasse la maglietta o se invece tenesse addosso quella sporca. Si lavava le ascelle senza mettersi il deodorante. Piegava la tuta e la chiudeva in un sacchetto di nylon. L'abbiamo lasciata sola, lei ha creduto di non meritarci, ha sempre pensato di essere la più stupida. Ha studiato più di tutti perché non aveva nient'altro.
Teresa fa la psicologa e si rivede in ogni suo paziente, si ritiene una sopravvissuta. Se avesse saputo che le sarebbe bastato lavarsi meglio, invece di uno studio pieno di traumi oggi avrebbe tre bambini vivaci, stipati in una camera coi letti a castello.
L'avevo trovata sulle Pagine Gialle, l'ho chiamata e ho provato a fissare un appuntamento.
Non voglio pazienti che conosco, mi ha risposto, se vuoi ti posso dare il numero di qualche mio collega. Mi ha domandato come stessi, come mi andassero le cose.
Le ho detto che andavano piuttosto bene, che mia madre mi mancava, avevo solo bisogno di parlare con qualcuno. Ha capito che sono una persona sola quando mi ha proposto di vederci per bere una birra. Ha addolcito la voce, nonostante fossi stata io a buttare il sacchetto con la tuta dentro il bidone dell'umido nello stanzino dei bidelli. Mi ha chiesto, sei sicura di non voler fare due parole? È stato allora che mi sono sentita peggiore. Così ho riattaccato.
Lo sai, tuo marito non ha mai guardato le altre donne, entrava salutando tutti con gli stessi occhi di quando si sorbisce la televisione la sera, senza voglia e senza forze. La fabbrica con gli anni ha trasformato i giorni in una catena di gesti sempre uguali, così il matrimonio. Tuo marito si era innamorato guardandoti sbucciare una mela, stavi seduta su una panchina in centro con un cane accovacciato ai piedi, mangiava le scorze. Sei stata amata senza condizioni per la prima volta, tua madre ti aveva cresciuta insegnandoti che una gentilezza si ricambia con la gentilezza, così ti sei sposata per riconoscenza.
La vostra bambina è convinta che siate sempre esistiti, uno per l'altra e invece non siete nemmeno parenti, compagni di cella, ti ritrovi a pensare.
Tuo marito ha aspettato che mi rivestissi, scopi come mia moglie, mi ha detto, non ho capito cosa intendesse davvero.
E adesso che mi guardi ancora con lo stesso viso di prima, quando la cameriera ti ha chiesto se preferissi un thè alla pesca o al limone e tu hai risposto fa lo stesso, penso che tu abbia una bocca obbediente che mi ha ricordato mia madre quando ha saputo che la metastasi le aveva consumato il fegato e ha ringraziato il dottore nonostante le avesse detto che non valesse la pena fare la chemio perché le sarebbero rimasti al massimo due mesi, forse tre.
La prima volta in cui mi sono sentita orfana è stato quando mi è venuta la febbre e sono dovuta andare in farmacia a comprarmi le medicine, sono guarita e nessuno è stato contento.
Mi aspettavo piangessi, mi sarei sentita meglio perché in qualche modo avrei cercato di consolarti, avrei avuto qualcuno per cui preoccuparmi. Invece hai alzato le spalle e hai piegato a metà una bustina di zucchero.
Teresa direbbe che state attraversando una crisi passeggera, cercherebbe di ridarti fiducia consigliandoti di riconsiderare la vostra storia adesso che avete la famiglia che avete sempre voluto. Sopravvivere alla sua adolescenza le fa credere che ogni persona abbia diritto a una vita migliore. Io invece vorrei solo prendermi un'aspirina e farmi la tinta più scura.
Te l'ho già detto, sorridi e mi ricordi mia madre, quando mi faceva credere che valesse la pena crescere ed essere come lei.

lunedì 10 novembre 2014

Milano

Dentro le pozzanghere di Milano ci sono suole sporche e condomini depressi. Tutti i viali fuori dal centro mi sembrano uguali, lunghi e anziani, ci vorrebbero un paio di giornate di sole a incendiare le foglie e invece la pioggia le abbatte incollandole sui tram e sui marciapiedi che percorro.

Ho paura.

Non ho abbastanza tempo per imparare a orientarmi, a Milano ci venivo per le gite in centro e per svuotare il portafogli a Pasquetta, ho creduto troppo presto di saperla capire e invece mi sono persa due volte e mi sono sentita tradita.

Prendo il novanta, mi siedo dietro a un paio di cinesi, andiamo verso il Naviglio Grande.

Leggo i muri, che passano veloci e mi raccontano le strade: la crisi c'è più della figa. Sale una donna con l'impermeabile che le arriva alle ginocchia. Chiede ad ogni fermata se qualcuno le vuole vendere un accendino, nessuno le risponde, lei ci guarda negli occhi e sbuffa. Poi ci domanda se siamo tutti salutisti o solo degli egoisti seduti vicini.

Ci guardo e di sicuro siamo tutti piuttosto brutti, coi capelli crespi e il viso sporco di metropolitana.

Penso che mi mancano i posti in cui sono cresciuta, i paesi con solo una chiesa e un paio di bar, la provincia.
Vedo delle biciclette appese sui balconi al quarto piano.
Prima dello spettacolo metto un maglione rosso, che mi protegga dal malumore e dalla sfortuna.

Va tutto come dovrebbe.

Quando entriamo in autostrada è mezzanotte e ho stretto tante mani di persone che mi dimenticheranno in fretta.
Vedo l'hotel delle cose e penso che una città in cui gli oggetti hanno bisogno di un albergo sia un posto che riuscirò ad amare soltanto quand'è passato.

domenica 26 ottobre 2014

Il compleanno

-Quanti anni ho?
-Quasi novantasei.
-Novantasei sono tanti. Sei sicura?
-Si mamma, sei nata il 16 dicembre del '18.
-Bisogna dirglielo al dottore che sono così vecchia. 
-Lo sa, mamma.
-Non riesco più a camminare.
-Sì, entrano tutti con la carrozzina. E' abituato.
-Sono tutti vecchi come me. Quanti anni ho?
-Novantasei, ma sta tranquilla che lo sanno anche loro.
-E' passato tanto tempo da quando sono nata. C'eri anche tu?
-No, sono tua figlia, io son nata nel Cinquanta.
-Mi ricordo, c'era anche tuo papà. Era un bell'uomo. Hai tutte le carte?
-Sì mamma, sono nella borsa. Vuoi una caramella?
-Magari, grazie. Oggi è il sedici dicembre?
-No mamma, è il ventiquattro ottobre. Vedi che gli alberi hanno ancora le foglie?
-Sì, bisogna rastrellare anche il nostro giardino.
-D'accordo, mando Enrico.
-Fra due mesi è il mio compleanno. Bisogna dirglielo anche al dottore.
-Va bene, ma lo vede scritto nel computer. Non preoccuparti che i dottori lo sanno.
-Sanno cosa?
-Quanti anni hai.
-Quanti anni ho?
-Novantasei
-Com'è passato veloce il tempo.



martedì 21 ottobre 2014

Autopromozioniamoci!



Vi aspettiamo a Milano, in Alzaia Naviglio Grande, 192.
Per info e prenotazioni 348.7076093 o alt@altaluceteatro.com.
Io, Lorenzo e Laura ci saremo di sicuro.
Sono già terrorizzata.

giovedì 9 ottobre 2014

Il barbecue

A Zia Erminia piacciono i bigodini, li fissa sui capelli bianchissimi e ogni mattina ha riccioli precisi che le incorniciano la fronte piena di rughe orizzontali.
Zia Erminia ha novantadue anni e mi dice di chiamarla bisnonna nonostante si dimentichi subito il mio nome. Porta degli orecchini rotondi e le ciabatte da dottore, passa a visitare i cavoli e le zucche nell'orto, controlla come stia la verdura che ha bisogno di cure più dei malati. Le piace la terra, e ogni volta che andiamo a trovarla mi racconta dei sui fiori, degli insetti che ci ronzano intorno o della pioggia che li inzuppa. E' una donna allegra, ci sente poco ma ormai il rumore delle parole le entra dagli occhi.

Arriviamo un sabato mattina, la troviamo indaffarata a togliere le erbacce dal viale che porta al parco giochi. Ci parla un dialetto strettissimo che qualche volta le incastra le consonanti nella dentiera.
Ci dice che nel quartiere ogni sera arrivano dei nuovi ragazzi, gente brava, ci assicura, si mettono attorno al tavolo da pic-nic a chiacchierare, come si faceva una volta. Intanto va a prendere un sacchetto e sradica quattro cipolle grosse quanto un pugno.
Continua raccontando che i ragazzi arrivano a gruppetti, si chiamano con il cellulare e si aspettano vicino all'entrata, saranno in quindici e usano il camino senza farci le braciole.
Io e Marco ci guardiamo un po' perplessi, ci chiediamo quale sia il senso di un barbecue senza il fuoco, così ci avviciniamo facendo finta di niente. Zia Erminia ha il fico da mostrarci che è pieno di calabroni e ci fa abbassare le teste.

Il camino è particolarmente ordinato, ci sono le cesoie da un lato e un paio di guanti dall'altro. Nel mezzo svetta un bong in erezione, lungo e impertinente si finge complemento d'arredo, sperando che nessuno ci faccia troppo caso. Sto per scoppiare a ridere ma Marco mi intercetta e mi ordina di tacere aggrottando le sopracciglia.
Intanto zia Erminia ci dice che non capisce a cosa servano certi marchingegni, ma l'importante è tenere tutto pulito, i ragazzi sono bravi e quando lasciano lo sporco ci pensa lei a lucidare il tubo di vetro. 
Loro la ringraziano.
Marco sgrana gli occhi, prende la zia sotto il braccio e torniamo in giardino.
Le dice che in fondo i ragazzi sono giovani, possono arrangiarsi da soli, e che sta arrivando il freddo è meglio che non prenda colpi d'aria.

Quando saliamo in macchina comincia a brontolare che certe cose ai suoi tempi si facevano meglio e mi fanno ridere i suoi trentun'anni, quando il passato era migliore si smette di crescere e si comincia a invecchiare.

sabato 27 settembre 2014

Il pensiero complesso

Sembra un nome di un fiore, o di una donna.  Invece no. 
L'Isis non sa profumo e ha il colore delle ombre. E' entrato nei miei sogni dal telegiornale e si è preso le nuvole, che tuonano di guerra e rendono pensierosi i miei risvegli.

C'era un vecchio che stava seduto sul ciglio della strada. Guardava le macchine e me che passavo. Teneva una palla in mano, la faceva ruotare con il polso, forse per tenere sveglie le articolazioni sempre più simili ai cancelli arrugginiti. Aveva la pelle dei beduini, avvizzita intorno alle ascelle e calante sopra le ginocchia. In testa portava sempre un fez rosso, probabilmente veniva dal Marocco. Era seduto solo, a lasciare che il marciapiede e chi passava si prendesse i suoi giorni.

Viene dal Marocco anche mio zio. L'ho visto l'altro lunedì in chiesa, una chiesa cattolica, perché era morto il padre di sua moglie ed eravamo tutti insieme al funerale. Mi ha sempre voluto portare a Casablanca, me l'ha chiesto anche al cimitero. Io ho sempre voluto andarci e non ci sono mai riuscita. E mi dispiace, oggi più che mai. Il suo Islam l'ho spiegato a scuola. Mi piaceva capirlo, non mi faceva paura.

Il male mi è sempre parso inutile. Ci sono troppe cose belle e non avrò abbastanza tempo per farle tutte.
Penso che la crudeltà sia figlia dell'ignoranza, mica di Allah, e l'ignoranza fa cadere le teste.
Senza testa non si va da nessuna parte.
Dobbiamo ricordarcene ogni giorno, noi che ancora possiamo restare a guardare. Pensare non è sempre facile, la comprensione, l'accettazione e la forza soprattutto, sono frutto di un lavoro costante che richiede fatica emotiva ed intellettuale.
Uno dei mali dei nostri tempi è la velocità con cui siamo abituati a vivere, che spesso appiattisce e fa svanire le idee, che non hanno tempo per crescere prendere vigore o smentirsi, semplicemente esistono per un attimo e poi muoiono.
Io credo che dovremmo esercitarci tutti a produrre un pensiero complesso, che non si accontenti mai di sé stesso e continui a cercare di essere migliore.
Per accettare qualcuno o ribellarsi a qualcuno prima bisogna capire.
L'Isis mi fa paura perché ha la violenza del nulla, che annienta tutto quello che non è uguale a sé stesso, che non è il vuoto.

C'è un vecchio che sta seduto sul ciglio della strada. Mi guarda arrivare nella nuova casa, ha gli occhi piccoli e il viso rotondo, porta la camicia a scacchi e con la mano stringe un bastone di legno chiaro.
Ogni volta che lo guardo penso all'uomo col fez in testa, mi piacerebbe presentare l'uno all'altro e che invece di continuare a stare soli imparassero a farsi compagnia.



domenica 14 settembre 2014

I miei dieci

Di solito le mie liste preferite sono quelle che faccio il sabato mattina prima di andare a fare la spesa. Questa settimana al supermercato ci ha pensato Marco, quindi io posso rispondere per benino a una delle catene che in questi giorni circolano su facebook. In genere sono abbastanza svogliata, ma sono stata nominata da un mio caro amico e si tratta di parlare di libri, quindi aderisco volentieri.
Si tratta di elencare i dieci libri che in qualche modo mi hanno cambiato la vita, quelli che mi sono piaciuti di più e in qualche modo hanno fatto la differenza.

Ecco allora i miei dieci fondamentali. 
  1. L'orsetto Meo. Il mio primo libro, lo so ancora a memoria. Vigila il vigile di buon mattino, drin, alla porta suona il postino. L'orsetto Meo ancora sbadiglia, con tutta calma lui se la piglia... E' grazie a lui se è iniziato tutto.
  2. La trilogia della città di K, di Kristof. E' il libro che vorrei avere scritto, a mio avviso il più bello che abbia mai letto. Quando entro in libreria cerco sempre qualcosa in grado di superarlo. Non l'ho ancora trovato.
  3. Pastoralia, di Saunders. Racconti geniali, di un autore particolarmente interessante. Non sono legati a uno stile preciso, ma riescono a costruirne uno di nuovo. Grande esempio di scrittura creativa.
  4. A ovest di Roma, di Fante. Di quest'autore amo tutto, mi sarebbe piaciuto conoscerlo, ci sarebbe stato da ridere. Scrittura asciutta e divertente, piena di talento. Il mio cane stupido, è un racconto lungo che mi ricorda mio padre.
  5. La porta, di Szabo. Come la Trilogia questo libro mi ha lasciato dentro un grandissimo senso di pietà, pietà buona, nei confronti del genere umano. Mi piacerebbe vederlo in scena a teatro.
  6. Don Chisciotte de la Mancia, di Cervantes. La lunghezza non deve spaventare. Capolavoro spassoso che ho letto dalla prima all'ultima riga la mattina, prima di andare a lezione al secondo anno di università. 
  7. I giorni chiari, di Banks. E' Il romanzo che sto finendo ora, luminoso e pieno di magia. Mi fa tornare in mento il tempo quando ero bambina. Libro gonfio di natura.
  8. 1984, di Orwell. Mi ricorda che la fantasia di un bravo scrittore anticipa il futuro.
  9. Le avventure di Kavalier e Clay. E' l'unico libro su cui io e mio fratello andiamo d'accordo.  Molto bello. Racconta di prestigiatori, fumetti e viaggi. 
  10. Dopo ieri sera cambio quello che avrei segnato come mio decimo (qualcosa di Roth) e indico Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana. Il suo Campiello mi ricorda che questo paese ogni tanto premia la serietà, la cura e l'impegno, e perché no, anche i giovani.
Se vorranno, sperando di fare cosa gradita, invito Berenice di Out of the Box, Michele di Le noud papillon e Gigliola a scrivere i loro dieci.

domenica 7 settembre 2014

Luce

Sotto la finestra si aggrovigliano i rovi. L'erba cresce a ciuffi cercando di farsi largo e trovare un varco, nessuno ha colto le more che sono rimaste ad aspettare sotto la pioggia diventando sempre più scure. Più in alto, intorno al fico, ronzano i calabroni. Si aggrappano ai frutti maturi che pendono dai rami stanchi, la vite si è attorcigliata all'albero e lo stringe.
Dietro le piante iniziano i campi, c'è profumo di fieno, starnutisco un paio di volte. Poggio la tazza dentro il lavello, sento tre spari uno dietro l'altro: si cacciano gli uccelli, è cominciato l'autunno.

L'unico cane che non siamo riusciti a tenere si chiamava Luce, le piaceva scappare.
Era un setter bianco e nero, il corpo affusolato le serviva per correre veloce in mezzo ai prati, saltava il cancello, attraversava la strada e poi via, correva verso il bosco e poi ci entrava, si tuffava dentro i cespugli e in mezzo al fiume, senza fermarsi. 
Noi provavamo a starle dietro.
Io e Serena la seguivamo col fiato grosso e le scarpe sporche, è così che abbiamo imparato a fischiare con le dita, gridavamo Luce, e lei ritornava per finta, si faceva vedere e spariva di nuovo, come fosse stato nascondino.

Le piacevano soprattutto i tacchi e i cellulari.
Quando riuscivamo a farla rimanere in casa fingeva di dormire, solo quando era sicura che nessuno la stesse guardando strisciava in una delle nostre camere e prendeva il primo telefono che trovava su un comodino.
Rosicchiava lo schermo, la tastiera e tutto quello che sapeva di plastica. Come i telecomandi, i tablet, le punte delle mie ballerine rosse o il primo smartphone di mio padre.

Del giorno in cui abbiamo dovuto restituirla mi ricordo solo che abbiamo pianto tutti. Né i guinzagli né gli educatori erano riusciti a risolvere il problema: è affetta da randagismo, ci avevano detto i veterinari, non ci potete fare niente.

Di Luce nessuno parla più perché una storia triste. 

Credo che qui le sarebbe piaciuto e adesso che è arrivato l'autunno vorrei vederla tornare, all'improvviso. Sfrecciare in mezzo all'erba tagliata e impigliarsi dentro i rovi pieni di more, ad aspettare che apra la porta per asciugarle le zampe, piene di mondo.


martedì 2 settembre 2014

Buone notizie

Sono tornata sana e salva dal viaggio alla Maddalena: prova aereo superata.
Convivere mi piace, anche se già teniamo una finestra sigillata perché sul vetro si è appiccicata una locusta e nessuno ha il coraggio di schiacciarla, Marco ha fatto gli incubi.
In dieci giorni dovrebbero installare sua divinità l'adsl: non sto pubblicando il pesce per mancanza di linea, non di voglia.
E per concludere in bellezza, il mio spettacolo Il ciclo debutterà a Milano il 6 e il 7 novembre all'Alta Luce Teatro per la rassegna 2014-2015. Ci saremo io, la bravissima Laura Serena e il registissimo Lorenzo Maragoni.
Siateci! Vi aspettiamo.


lunedì 11 agosto 2014

Partire

Ogni oggetto nuovo è da scartare. Taglio le scatole, apro le buste di cellophane, levo le etichette, sfaldo le unghie. Il pavimento si riempie di sporco, calpesto il nastro adesivo e lui per vendetta si incolla sotto le suole.
Rompo una tazzina. Tutte le cose hanno una consistenza, la fatica è dura e appiccicosa come le mie spalle quando sollevo il decimo scatolone. 
Puzzo di sudore, tolgo la maglietta.

Penso tanto, leggo poco.

Ho ricordato la storia di ogni libro che ho chiuso dentro un pacco -dove l'ho comprato, se ero felice- ho riempito diciassette scatoloni, ventinove anni, li ho sentiti per la prima volta.
Nei sacchi della spazzatura getto i biglietti dei concerti, gli auguri di natale e le medicine scadute.
Mi ripeto che infondo mica mi sto sposando, posso sempre tornare indietro.
Mia madre mi ha già detto che vorrebbe un nipotino, cinque volte in un paio di giorni. Le ho risposto che prima devo scrivere un romanzo.

Tengo le lettere e i diari, ci sono un mare di parole che mi hanno fatto capire meglio il mondo, monto comunque gli scaffali ikea nella maniera sbagliata, bestemmio un paio di volte e lascio il martello sul pavimento.

Quando pulisco lo specchio faccio uno spruzzo sopra il viso, così divento un soffione. Com'è che sono cresciuta e non mi sono accorta del tempo che mi attraversava, ogni inverno mi sembrava diverso e invece ero io che cambiavo gli occhi.

Ripenso a com'è stato essere un'adolescente magra, sempre chiusa dentro una stanza, alle amiche, ai nuovi fratelli, a quando l'amore era ad un bivio e tutte le direzioni mi parevano giuste.

Lasciare il mio materasso memory sarà una tragedia. Salgo in camera e strofino la spugna dentro i cassetti, c'è odore di liquirizia o forse di fumo.
Apro i balconi.
Fuori le pannocchie hanno un ciuffo biondo, sotto di me c'è un mare verde gonfio di agosto ed erba umida. Vorrei giocare a pallone e sbucciarmi le ginocchia col corpo che avevo da bambina.

Oggi sono ancora io, domani come saremo?

mercoledì 23 luglio 2014

Fuoco d'artificio

Mi prende la mano come fosse un'erbaccia da strappare dalla terra, mi dice, vieni, ti devo mostrare una cosa.
Cammina a testa bassa, con un cappellino rosso che gli ripara gli occhi dal sole, occhi liquidi e pieni di domande perché il mondo l'hanno visto poco.
Daniele ha i piedi piccoli e il passo svelto. 
Sono preoccupato, continua.
Per cosa? Gli chiedo.
Mi indica un gruppo di bambini accovacciati in cerchio in un angolo del cortile. Nessuno mi bada, mi unisco al gruppo ed è come se ci fossi sempre stata.
Prendi dell'acqua, mi ordinano, le lumache sono animali acquatici. 
Al centro c'è una chiocciola che striscia lasciando la bava. I bambini le mettono davanti il palmo per farle cambiare tragitto.
Lasciatela in pace, dico io.
E' la più fortunata, mi rispondono loro.

Si alzano all'improvviso e mi portano vicino alla pozzanghera, ci sono quattro chiocciole frantumate, il corpo molle luccica al sole e rattrappisce.
Stavamo facendo una corsa di lumache e questa è l'unica che ha vinto. Le altre le abbiamo uccise, mi spiegano.
Prendono la chiocciola e la posano sull'erba. Poi si avvicinano ai tentacoli e cominciano a gridare. Hanno voci che pungono, mi danno fastidio. 
Vogliamo capire se le lumache hanno le orecchie, ma ci sembra di no.
Prendo la bestiola e la infilo dentro la siepe. Andate a giocare a calcio e smettetela. 
Loro annuiscono e corrono a prendere i palloni. Solo Luca mi chiama stronza e mi pianta il muso.

Più tardi controllo che tutto vada bene. Daniele è in porta, para i colpi unendo gli avambracci, Giovanni tira con forza, il corpo si piega, il pallone si solleva e vola a rete. Qualcuno esulta, Giacomo sputa.
Sopra le montagne le nuvole si gonfiano, così anche il sole si inzuppa e l'aria diventa umida.
Arriva Luca si prepara davanti alla porta, è senza pallone, Daniele lo squadra.
Luca prende qualcosa dalla tasca, lo lancia in alto e brilla prima di ricadere. 
Quando capisco è già tardi.
Luca calcia la chiocciola che esplode e si sparpaglia, un fuoco d'artificio.
I bambini intorno ridono e applaudono. Due arrivano facendo la sirena dell'ambulanza.
Adesso abbiamo abbastanza lumache per costruire un cimitero, mi dicono. Cercane altre che intanto seppelliamo queste.

sabato 12 luglio 2014

Südtirol

Colazione a buffet.
Prendiamo: latte di capra, latte di soia, succo di mela, uova strapazzate, pancetta fritta, spek, pane nero, burro, marmellata di mirtilli, yogurt, melone, datteri, dei semini rossi non tanto buoni ma che fanno bene alla salute, brioches, caffè. Mangiamo tutto lasciando di stucco la coppia al tavolo a fianco, due trentenni che parlano tedesco, non sappiamo se austriaci o altoatesini, dettaglio fondamentale visto che ogni volta che ci controllano i piatti, e lo fanno spesso, Marco li insulta non tanto a bassa voce.

In Südtirol ci siamo arrivati dopo aver chiuso le chiavi della macchina dentro il bagagliaio, abbiamo dovuto chiamare l'elettrauto.

Durante il tragitto decidiamo di spezzare i tornanti con un caffè in una pensione in mezzo al bosco, un bosco di abeti scuri che riempie di tristezza solo a guardarlo. Vicino al bancone un vecchio senza denti gioca con una trottola, la fa girare dentro un quadrante di legno, deve colpire delle palline colorate e mandarle in una delle quattro buche agli angoli.
Ci serve una barista con le unghie colorate di azzurro, della stessa tinta di un fiore di panno che le ferma la coda. In mezzo al niente il brutto del mondo sembra ancora peggiore.

Il paese in cui soggiorniamo invece è sopra le nuvole. Le attraversiamo e poi le guardiamo dall'alto, sembrano le matasse di polvere sotto la mia libreria.
In albergo ci infiliamo l'accappatoio e lo togliamo solo per mettere la tuta o il pigiama, Marco si adatta subito al concetto di vacanza wellness, la pigrizia gli calza a pennello, soprattutto quando è in bagno. Se lui è in cova a me tocca farla nella toilette della reception, tanto sei una persona adattabile e io finisco la partita contro la Roma, mi dice.
Gli piacciono i videogiochi.

A cena il vino non è compreso.
I nostri vicini scelgono una bottiglia costosa, che centellinano e lasciano sul tavolo piena a metà.
Quando se ne vanno gli occhi di Marco smettono di guardarmi. Fatica a seguire quello che gli racconto, mi dice sempre di sì e fissa il cabernet abbandonato come fosse Claudia Schiffer.

Non osare gli dico.
Solo un bicchiere, cerca di convincermi.
Non mi convince.

Arriva il cameriere  per portarci via il piatto, è un uomo biondo con la mascella importante. Potrebbe fare il soldato o il pilota di aerei, invece ci informa che i dolci sono a buffet, siete tra gli ultimi, dovete controllare se è rimasto qualcosa.
Lo stiamo per ringraziare quando aggiunge.
Sapete, i nostri ospiti quando arrivano qui si comportano come se non mangiassero da mesi.
Ride.
E' cordiale.
Ma io mi sento la coscienza sporca, il sangue si raffredda e il respiro ha un tonfo. Penso al vino e alle nostre colazioni -forse più simili a pranzi di natale- e vorrei diventare una briciola di pane e sparire.
Arrossisco e rimango impalata al mio posto.
Marco invece si è già alzato.
Mi scusi, dice al cameriere, allora dobbiamo muoverci perché sa, noi siamo esattamente così.

E in effetti facciamo il doppio giro.

giovedì 3 luglio 2014

Autoproduzione creativa

Simone Tempia è un po' come Babbo Natale.
Esordiente ingegnoso, ha creato una collana editoriale per distribuire i suoi racconti. Grazie al grafico Giovanni Pallotta e alla collaborazione di numerosi illustratori ha realizzato degli e-book home made di ottima qualità.
Se gli si invia una mail a contemporaneoindispensabile@gmail.com chiedendo di leggere qualcosa, si viene subito accontentati: Simone spedisce gratuitamente a tutti quelli che lo desiderano uno dei suoi scritti, se il racconto piace se ne possono chiedere degli altri.
Io leggerò il quarto questa sera.
Simone ha una buona scrittura ancora perfezionabile, con ottime potenzialità. Idee brillanti e ritmo agile trasportano il lettore in racconti fantasiosi che a mio avviso sottendono riflessioni sottili.
La banca è il mio racconto preferito, ma non vi anticipo nulla.
E' bellissimo scrivergli ed aspettare che risponda, non si sa mai cosa si riceverà, un po' come la notte della vigilia.
Simone ha evitato di appoggiarsi a riviste letterarie o alle pubblicazioni on-line, ama i rapporti diretti, i click anonimi non gli interessano. Evvabbè, ci riescono tutti ad autoprodursi, penserete. E sì, ci riescono tutti, ma non così.
Ve lo riscrivo: contemporaneoindispensabile@gmail.com, datevi una mossa e madategli una mail.
Anche se sono un'accanita sostenitrice del detto tutti sono utili, nessuno è indispensabile Simone Tempia potrebbe fare la differenza colorando un'ora grigia.
E scusatemi se è poco.

martedì 1 luglio 2014

La biscia

Se dio vuole il peggio è passato.
Sono state giornate impegnative in cui mi sono dovuta scontrare con i poteri forti, per la prima volta nella mia vita. 
La censura e le informazioni da storpiare ogni mattina rendevano pesantissimo il pranzo al lavoro, fatto quasi sempre con lo stomaco pieno di pietre. 
Non potrò più credere neanche a Mentana.
Di sera ho dovuto scrivere, tanto. Credo sia pure uscito qualcosa di buono. 
Ho bisogno di una cioccolata calda, questo luglio mi sa troppo di ottobre e pozzanghere. 
Ho bisogno di scrivere per me, ma a trovare le storie ci vuole tempo. Per fortuna ci sono pensieri, con quelli arrivo fino alle nuvole, che oggi sono ammucchiate addosso ai monti quasi fosse venuto qualcuno a rastrellarle.
Una casa sulla collina ci aspetta.
La vita sta cambiando, io vortico nell'acqua e faccio la muta.

domenica 15 giugno 2014

La barba

Una donnina minuta entra in negozio tenendo un bambino per mano. E' il suo unico figlio, ha imparato a leggere prima di andare alle elementari. Si chiama Giovanni, gli piace comandare. Ordina a sua madre di sedersi su un fungo di plastica, poi si fionda nel reparto illustrati e sceglie i volumi più spessi, fatica a portarli ma vuole farlo da solo, sua madre lo aspetta mansueta.
L'ho vista qualche volta pedalare svelta su una graziella bianca, traballa per rimanere in sella quando deve poggiare il piede a terra prima che scatti il verde.
Quando la incrocio cerco di guardarla negli occhi, probabilmente pensa io sia una ragazza coraggiosa, invece è solo che lei ha la barba.
Dei peli robusti crescono sulle guance e sotto il mento, mi chiedo perché non se li levi, immagino sia una donna senza un marito.
Invece suo marito è un uomo magro, l'aspetta fuori dalla libreria tenendo un bassotto al guinzaglio.
Porto i colori e fogli bianchi. Li appoggio sul tavolino, Giovanni mi ordina subito di passargli il rosso.
Sua madre si scusa, è un bambino vivace - devi dire per favore - gli ricorda.
Lui non ci bada, prende il foglio e lo mette sul pavimento, gli pare che sulle mattonelle i visi gli vengano meno spigolosi.
Il bassotto abbaia contro chiunque entri in libreria, punta il naso verso il cielo, vorrebbe diventare più alto, magari più temibile; la donnina minuta decide che è ora di fare presto.
Riordina gli sgabelli, raccoglie i tappi e tutti i pennarelli, prende il figlio per mano. Se ne vanno con una sporta piena di libri che profumano di inchiostro.
Il disegno di Giovanni è un ritratto di famiglia, l'ha abbandonato vicino al battiscopa.
Lui sta al centro, suo padre e sua madre gli danno la mano. Dal viso di entrambi spuntano piccole linee sghembe, simili ai raggi del sole che ha disegnato sull'angolo in alto a sinistra.
Sorridono.
Raccolgo il foglio e lo appendo vicino al computer, lo guardo spesso perché mi mette allegria.
Sul mento del suo autoritratto Giovanni ha disegnato un trattino diritto, spavaldo, simile a quello dei suoi genitori.
La barba cresce a tutti quando si diventa adulti, uomo o donna non fa alcuna differenza, lui non vede l'ora.

lunedì 2 giugno 2014

L'eccezione

Il colore delle pareti è simile al colore dei fogli, che è simile al colore delle scrivanie, che è simile al colore dei visi alle otto e trenta: bianco pozzanghera, gli ottimisti lo cancellano col fondotinta o con i week end al mare, ricompare ostinato ogni lunedì mattina.
Percorro un parco pieno di pini e mi piacerebbe essere un merlo, o la pigna sul ramo più alto per guardare la gente dall'alto e godermi il sole, o uno di quei temporali che in questi giorni sconvolgono il cielo.
E invece no.
Arrivo con gli occhiali da sole e il cuore in gabbia.

Perché vuoi continuare a scrivere? Mi ha chiesto mia madre. Nella vita dovresti imparare ad accontentarti.

Salgo in ufficio dando le spalle alla finestra. Il computer ha la stessa faccia di sempre, se fosse un marito mi sarei trovata un amante. Verso le undici ho bisogno di un caffè per continuare a sopportarlo, scendo le scale e attraverso il giardino.

C'è una donna che sta aspettando la sua cioccolata, ha la schiena curva e la testa incassata dentro il tronco. Le mani le tremano leggermente, tiene le dita distese. Mi ricorda quei fantasmi che infestavano i castelli quando leggevo le fiabe, se ne va camminando leggera, quasi sospesa.

Qualcuno urla il mio nome all'improvviso.

Seduti vicino alla siepe due uomini mi fanno cenno di raggiungerli.
Oscar mi aveva detto che lui i nomi delle persone li dimentica subito, invece gli piace solo essere bugiardo.

Anche se sei laureata abbiamo deciso di darti del tu, mi informa, e gli dico che non c'è problema, mi ritorna il buonumore.

Il suo compare ha la parte destra del corpo paralizzata, mi sorride con la sinistra.
Mi chiede di scendere a fumare un po' più spesso, io gli spiego che non fumo.
Neanche io, mi risponde. Ma è bello fare finta e prendere una boccata d'aria fresca.

La sua faccia sbilenca è simile ai disegni dei bambini senza contorni, alle biciclette che cigolano, agli errori di ortografia. Mi ricorda quando credevo che tutte le parole belle avessero una doppia: mamma, giallo, latte, gatto.

Non avrò mai una moglie, mi dice, ma sai a nascere eccezione la vita non è così male.

Farfuglia e incespica un poco. Me ne vado salutandolo con la mano, pensando che eccezione andrebbe scritta con due zeta, come tutte le cose belle che mi fanno sentire viva.

giovedì 22 maggio 2014

Giorgio Fontana

Comincio a parlarvi di Morte di un uomo felice partendo da un dettaglio frivolo e completamente irrilevante: Giorgio Fontana è un uomo bellissimo.
Detto questo. 
Ricominciamo.
Morte di un uomo felice è un libro che, assieme al precedente Per legge superiore, forma un dittico che parla di giustizia. O meglio, di come il sentimento di giustizia possa essere coltivato e vissuto. I protagonisti sono due personaggi speculari, Giacomo Colnaghi, un magistrato, e suo padre Ernesto, un partigiano. La trama, lo sapete, non sarò io a raccontarvela.
Mi interessa di più farvi capire perché il lavoro di Fontana è importante.

Premetto che all'inizio pensavo fosse solo un libro scritto con diligenza da uno scrittore caparbio, ma non particolarmente dotato: dialoghi poco credibili, e uno stile nebbioso, grigio come le pianure in inverno.
Mi annoiava.
Prima di lui avevo letto un gioiellino di Roth e il suo libro a confronto mi pareva scialbo. Proseguivo la lettura soltanto per una discussione iniziata col mio fratellissimo Scandolin, lui l'aveva definito da subito "molto bello" e volevo fargli cambiare idea.

Ovviamente è successo il contrario.

Morte di un uomo felice ha un motore diesel. Parte con calma e acquista velocità gradualmente, sempre di più, fino a superare tutti con un sorpasso poderoso.
Il linguaggio piano non dice più di quello che dovrebbe dire. E' simile a quegli uomini di una volta coi baffi e che parlano poco.

Giorgio ha saputo scrivere qualcosa che va al di là della scrittura stessa e che rimane a prescindere dal come.
Mi ha preso in contropiede facendomi sentire superficiale, ho giudicato troppo in fretta, come fa la maggior parte della gente abituata a sentirsi tradita e alle impressioni veloci. Morte di un uomo felice è un libro che riesce a dare consistenza al nostro paese gracile, mi sono chiesta se riuscirei a fare altrettanto.

Scandolin aveva ragione.

L'autore è uno scrittore coerente, che ha scelto di narrare con una serietà semplice la complessità del farsi giustizia: il suo lavoro ha radici profonde che lo fanno germogliare con garbo.
Quello di Fontana è un buon libro, che non ha bisogno di fuochi d'artificio, né di troppi due punti*.
La dignità del suo raccontare si imprime sul lettore che ha fiducia, così che Morte di un uomo felice ha la bellezza rara di una promessa mantenuta.



*soprattutto in Per legge superiore Fontana ce li infilava dappertutto

giovedì 15 maggio 2014

La perfetta coniugazione.

Ristorante, fase premestruale.

Eri, ultimamente, non so, mi sento strana. Insoddisfatta credo. Anzi no, ho paura. Uscire di casa mi spaventa tantissimo, perché sai, comincio a confrontarmi con l'idea di eternità. E mi domando, riuscirò a stirarmi le camicie, condividere un bagno con Marco -che diventerà più suo che mio- prendermi cura di me stessa e degli altri per tutta la vita che mi rimane? Se ci pensi non ho ancora trent'anni, e per la prima volta mi sento così giovane, che fretta c'è?
Per sempre è per sempre. E infondo a casa mia sto benissimo. I miei li adoro.
E poi.
Come farò senza tutti i miei animali e senza il giardino? Perché lo sai, a me piace vivere con le bestie e in un mini-appartamento potrei tenere al massimo un canarino.
Marco è allergico ai gatti. Ho già pensato che dovrei comprarmene uno senza il pelo e sono orribili, mi è venuto da piangere.
Erika, non sono mammona, non dire così. E' solo che sono un po' in crisi. 
Anche con me stessa, credo.
Mi chiedo, come farò a trovare il tempo per scrivere con un lavoro e una casa da gestire? Ho pensato anche che forse una famiglia non è il mio destino, perché se non scrivo muoio. Mi sa che vivrò in un letamaio.
Ti dico, a me non pare proprio di ingigantire i problemi, anzi.
Però sono  anche stufa dei passatempi del cazzo. 
Tipo, ok che andiamo al bar e a negozi. Ci sta. Ma insomma a un certo punto basta, mi annoio. Ci sono anche altre cose belle nella vita. Tipo i nostri amici. Secondo me li vediamo troppo poco e anche questa cosa mi terrorizza.
Passare una vita vedendo soprattutto gente del paese, ok ci divertiremo un sacco, ma capiamoci. Io sento la mancanza dei nostri amici intellettuali. Lo sai come sono. Mi piace parlare di libri, di cinema, di scrittura. Ho bisogno di discuterne, altrimenti soffro. E mi sento male, perché tradisco la mia natura...

E a questo punto prende la parola santa Erika, che mi ha ascoltato con la pazienza di una martire, bevendo sorsate di Sprite e attorcigliando una ciocca di capelli con le dita.
Amica, mi dice, stai tranquilla, te la sei sempre cavata benone, stai solo diventando adulta. E poi sulla scrittura che problemi ti fai? Uno, intellettuale, o lo è o non lo è.

E' allora che dio mi punisce. Probabilmente anche lui ne aveva le palle piene di sentirmi blaterare. La guardo negli occhi e con aria saccente le rispondo, bè, Erika, è ovvio: io lo è.

Ecco.

Credo che per me sia arrivato ufficialmente il momento di starmene zitta, meglio tornare a scrivere, che dopo un mese sabbatico questo blog è cominciato a mancarmi davvero.

domenica 13 aprile 2014

I naufraghi

Dentro il mercato le persone sono belle, somigliano ai bottoni con cui giocavo da bambina, mia nonna li teneva dentro una scatola di latta e non ce n'era mai uno di esattamente uguale all'altro.
Ci sono donne arabe coperte da veli che toccano la strada, solo gli occhi si intravedono da una fessura, mi chiedo come facciano a non inciampare. 
Dalle carrozzine bambini nuovi e disabili accartocciati guardano sorridenti i banchi di frutta che in questa stagione cominciano a colorarsi. Penso a come sarebbe la vita a vendere fiori.
Io e mia madre andiamo a comprare la frittura di pesce, dobbiamo attraversare il centro a piedi, ci fermiamo a guardare le bancarelle e qualche volta compriamo una maglietta o magari un pesce rosso da mettere nello stagno in giardino. 
Intorno c'è rumore di cucchiaini, fa abbastanza caldo e i bar tengono le porte spalancate, così l'odore di brioches si sparge sulla strada. Mi viene fame subito, anche se per colazione ho mangiato la pastiera. 
Un uomo senza gambe chiede l'elemosina trascinandosi su uno skateboard. Finché è voltato un ragazzino lo indica a suo padre, poi lo scopre da davanti, così arrossisce e scompare.
Sotto il duomo mia madre mi tira il braccio. Ho trovato un bellissimo regalo che vorrei comprarti, mi dice, lo prendiamo?
Alzo la testa e vedo un ombrello di Peppa Pig a spicchi rosa e bianchi. Le ricordo che ho ventotto anni e non sono treenne da almeno un quarto di secolo.
Lei mi risponde che è appunto per questo che sarei simpatica più degli altri. Non mi convince.
Ci mettiamo in fila per i calamari e i gamberi fritti e ci serve una donna che non capisco bene se è un uomo. 
Tutta questa confusione mi fa sentire allegra, dentro questo mare di gente ogni naufrago può essere salvato.

giovedì 27 marzo 2014

Inverno

Il mare è ancora bianco, senza cordone il mio ombelico è solo un vuoto che si riempie di schiuma.

mercoledì 26 marzo 2014

Cedils, ancora

Dopo aver scritto il post sul Cedils sono stata contatta da diversi lettori che volevano ulteriori informazioni sul certificato per insegnare italiano agli stranieri.
Si lavora? E' utile? Serve all'estero?
Ecco cosa mi è successo.

Subito dopo aver ottenuto il certificato vengo contatta da un ente di formazione accreditato dalla Regione Veneto. 
Mi propongono di insegnare ai lavoratori stranieri in difficoltà per il progetto "Interventi di politica attiva per il reinserimento, la riqualificazione, il reimpiego dei lavoratori del sistema produttivo colpiti dalla crisi economica"
Il progetto è finanziato dal Fondo Sociale Europeo, quindi si va sul sicuro: 18 euro l'ora pagati con ritenuta d'acconto.
Mi spiegano che però i soldi arriveranno dopo sei mesi, perché l'Europa deve pagare la regione, che deve pagare l'ente, che deve pagare il dipendente.
Ok, dico io, insegnerò comunque, voglio farmi esperienza e per sei mesi posso anche aspettare.
Era il novembre 2012.

A marzo 2014 dei soldi neanche l'ombra. 
Mi decido a chiamare in Regione parlando direttamente con il responsabile dell'ufficio che gestisce la contabilità e i finanziamenti dei progetti in questione. Mi rassicurano: tutto regolare, è la regione che effettivamente non ha ancora pagato gli enti, al momento non c'è liquidità, forse quest'anno ci sarà. Chi può saperlo.

Chi può saperlo??? 

Ora, per fortuna io avanzo solo un migliaio di euro, ma mi dico: porca eva, se lavoro all'interno di un progetto salvagente, che va a tamponare i danni di una crisi economica, con quale faccia non paghi chi ha lavorato al suo interno?
All'epoca avevo 26 anni e i miei genitori provvedevano al mio totale sostentamento. Alcuni miei colleghi erano però signori con famiglia, che facevano un numero elevato di ore per portarsi a casa i soldi con cui mantenere figli e mogli. Come avranno fatto loro?

Grazie a dio ci sono gli alunni, loro riescono a rendere l'insegnamento un'esperienza bellissima nonostante tutto.
Per il resto l'Italia mi sembra diventata il regno di Fantasia de La storia infinita, il nulla che avanza divora il buono e lascia solo amarezza.

mercoledì 19 marzo 2014

Father's Day

E' sera e io ho dodici anni. Sono in giardino con mia madre, dove ci sono le canne di bambù, verso la strada. 
Improvvisamente dalla cucina si sentono urla furibonde, rumore di sedie, un tonfo secco.
Poi silenzio. Mia sorella, allora bambina, esce fuori e ci raggiunge: ho ucciso il papà, ci dice.

Mio padre ci ha sempre ricordato che se siamo nate è perché ci voleva mia madre, lui no. Preferisce i cani, Bala, il nostro Bovaro, lo chiama il mio bambino abbracciandolo fortissimo.
Per noi non è mai stato un problema, ci ha sempre fatto ridere e ha sganciato spesso.
Il primo ricordo che ho di lui è quando mi ha portata a raccogliere funghi invece che andare all'asilo, mi ha comprato un bellissimo paio di stivaletti dei Puffi e sono stata felice tutto il giorno.

Per far dispetto a mia madre quando avevo un paio di anni mi aveva insegnato una filastrocca, che io capivo poco, ma che mi pareva divertentissima per l'effetto che provocava sulle persone quando la recitavo, e lo facevo spesso, a tradimento, facendo vergognare mia madre: tempo belo spisa l'oselo, temporale spisa le bale. Ma forse ve l'ho già raccontata.

Mio padre è un tipo piuttosto irascibile. Quand'ero adolescente e facevo qualcosa che non andava bene mi chiudeva in camera per due giorni, avevo il permesso d'uscita soltanto per fare pipì,  non potevo ricevere visite né rispondere al telefono. Così una volta scontata la pena gli sputavo nel caffè.

Con mia sorella ha sempre avuto un rapporto conflittuale, anche quando Serena era bambina. E torniamo a quella sera d'estate: ho dodici anni, sono con mia madre e mia sorella ci ha appena detto: ho ucciso il papà.
Corriamo in cucina lo troviamo disteso a pancia in su, immobile, in un lago di acqua frizzante.

Serena non voleva spreparare la tavola. Gliel'aveva ordinato una, due, tre volte. Mia sorella non voleva, neanche per sogno. Alla quarta l'aveva mandato a quel paese così mio padre aveva provato a suonargliele. Solo che Serena era svelta, aveva cominciato a correre intorno al tavolo con mio padre alle calcagna, non riusciva a prenderla, né a bloccarla. Così con un lampo di genio aveva pensato di rovesciare la bottiglia di Ferrarelle sul pavimento in modo da farla cadere. 
Solo che Serena non era caduta, era una bambina sveglia, era scivolato lui che aveva l'ernia al disco e trant'anni in più.

E' sopravvissuto. Siamo sopravvissuti, piuttosto bene devo dire, tutti insieme.

Mio padre quando oggi gli ho fatto gli auguri mi ha ricordato di essere un tipo materialista, gli piacciono i regali, soprattutto tecnologici. Per fortuna non ho ancora preso lo stipendio.

mercoledì 12 marzo 2014

12 marzo 2014

Mi tuffo in mattine larghe, che lasciano spazio a un sole brillante e pensieri felici.
La mia vita ha preso la rincorsa, devo allenare il respiro e gonfiare i muscoli per riuscire a starci dietro.

La sera camminiamo stanchi per le vie del centro tenendoci la mano, ho poco tempo per scrivere, cerco di ricordare tutto quello che vivo in questi giorni per raccontarlo nei pomeriggi di pioggia, pieni di noia e lentezza velenosa.

Usciamo da un bar imbevuto di gente e spritz campari, incrociamo Oreste -un negro zoppo e sordomuto- che saluta Marco con la mano e un sorriso silenzioso che mi fa sentire fortunata.

Nello stagno di mio padre è atterrato un germano reale per riposarsi e fare un po' di nuoto. Chiudiamo i cani in salotto e usciamo tutti in giardino ancora in pigiama, ci accucciamo vicino al cancello a guardare l'anatra che passa il becco sotto le piume e ci sembra un miracolo.

Nel pomeriggio la piazza si riempie di bambini con indosso i primi paia di occhiali da sole che li fanno sembrare tante mosche colorate che giocano a rincorrersi inciampando qualche volta.
Vicino al duomo ci sono due peruviani che provano a suonare il flauto di pan stando dietro a una canzone andina vomitata da uno stereo anni Novanta a massimo volume. Non azzeccano neanche una nota, ma continuano con ostinazione, un euro per il coraggio glielo darei volentieri.

Gli alberi si colorano, i cani segnano i lampioni e grattano l'erba, pesto una cacca guardando il cielo.

E' primavera, ancora una volta e non mi stanco mai.

giovedì 6 marzo 2014

San Tommaso

Vengo a scoprire George Saunders lo scorso mese. Avevo letto un'intervista su inutile (una delle poche uscite in Italia) e Matteo Scandolin me l'aveva consigliato. Quando qualcuno mi parla troppo bene di qualcosa lo sospetto a priori, anche se è il mio amico più fidato a farlo. Così vado in libreria e compro Dieci dicembre, una raccolta di racconti edita da Minimum Fax con una bella copertina azzurra.

Dunque.
Consiglio a tutti di cominciare a leggere Dieci dicembre dal secondo racconto, il primo potrebbe demoralizzarvi e sarebbe un peccato. Saltatelo senza sensi di colpa, tanto potrete comunque ritornarci alla fine. E mi capirete.

Le recensioni che riguardano i lavori di Saunders spesso contengono la parola gentilezza, che è un termine desueto, soprattutto ai nostri tempi, divenuto celebre dopo un discorso dell'autore agli studenti della Syracuse University.
Ora.
La prima parola a me viene in mente pensando a Saunders è libertà, mi sembra molto più pertinente. Oppure pazzia.
I racconti che riesce a scrivere hanno una potenza bizzarra, rara, che non dev'essere capita razionalmente, ma che viene assimilata empaticamente, comincia a scorrere nel sangue e ti si insinua fin dentro lo stomaco.
Mi spiego meglio.
Ci sono libri ben scritti che appena conclusi vengono dimenticati nel giro di pochi giorni. Sauders riesce a far durare il racconto aldilà della pagina, a distanza di un mese sto ancora pensando a certe sensazioni, a certe intuizioni, che prendono senso se lasciate sedimentare nei pensieri.

Ancora migliore di Dieci dicembre è Pastoralia. Un libricino che contiene sei racconti, sei allucinazioni taglienti che esasperano e sbeffeggiano alcune ipocrisie del mondo contemporaneo.
Quercia del mar in particolare è una gemma preziosa, una storia grottesca e perfetta, estremamente divertente che mi piacerebbe aver scritto e che da sola vale i nove euro spesi per il libro.

Penso che Saunders abbia del talento vero, se non sapete cosa leggere magari ricordate questo post.
Sapete, mettendoci il naso si trovano molte cose brutte, ma anche molte cose belle, San Tommaso la sapeva lunga.

domenica 23 febbraio 2014

La cova

La bambina la spiavo al catechismo perché alle elementari io ero in A, lei in C, ricreazione in cortili separati. Aveva i capelli nerissimi e un viso grasso, il corpo no, era soltanto robusto. La conoscevamo tutti, anch'io che parlavo solo con pochi altri. Si chiamava Priscilla ed era cattiva. Aveva sputato in faccia al prete e lui le aveva mollato uno schiaffo sul viso, davanti al crocifisso, noi l'avevamo perdonato subito, perché avremmo fatto lo stesso, ma poi c'era la confessione e ci faceva paura. 

In prima media mi ero trasferita in un altro quartiere. Il terzo giorno di scuola era arrivata una bambina nuova. Mi chiamo Priscilla, aveva detto alla professoressa, mia mamma è morta che avevo nove anni. Lo diceva sempre quando si presentava a qualcuno. La professoressa era sbiancata e aveva deciso di portare pazienza, sempre. Priscilla parlava in dialetto e gridava spesso, si mangiava le unghie fino a lasciare solo una lunetta rosa. Sua madre era morta di aids, che per me era solo una sigla di qualcosa di pericoloso, che tutto sommato mi diceva poco.

Priscilla viveva con sua nonna. E una gallina. Andavo a fare i compiti a casa sua qualche pomeriggio che c'era poco da studiare. Giocavamo in giardino, soprattutto. Mi aveva presentato subito la sua gallina, che si comportava più come un cane e stava con noi la maggior parte del tempo. Mi divertivo, ma non lo  davo troppo a vedere, perché Priscilla era una bambina diversa, come i testimoni di Geova, solo che lei aveva un padre drogato. Poteva vederlo solo il sabato e una volta me l'aveva fatto conoscere, in una stanza buia, era magro e giovanissimo, a ripensarci.

In seconda media Priscilla aveva cambiato scuola, sua nonna era troppo vecchia, così era stata affidata a qualche altro parente, una zia, probabilmente. Non l'ho più rivista.

Oggi era bel tempo e sui carri mascherati c'era una gallina rossa, gonfia di piume.

La gallina di Priscilla sapeva che aveva una bambina da covare. Dopo cena chiocciava e sbatteva le ali, Priscilla allora metteva il pigiama e si infilava sotto le coperte. La gallina le dormiva accanto, se erano stati bei sogni il mattino dopo, a ricreazione, Priscilla  mi mostrava un uovo e diventava una bambina buona.

lunedì 17 febbraio 2014

Short term 12

I film che ho guardato nell'ultimo mese sono stati tutti piuttosto gradevoli. Questo mi dà una certa soddisfazione, c'è stato un periodo, l'anno scorso, in cui ho collezionato una serie di epic fails, facendomi abbindolare da trailer realizzati meglio della pellicola che pubblicizzavano. Purtroppo.
Da squattrinata quale sono tifo lo streaming. E ieri sera con mia piacevole sorpresa sono incappata in un film delicato, di cui non avevo mai sentito parlare.

Short term 12 racconta la storia di Grace, una giovane assistente in un centro di recupero per adolescenti disadattati. Come sapete non mi piace spoilerare, né ho conoscenze cinematrografiche specifiche. Non vi parlerò della regia né della trama, solo di pensieri miei, privati e totalmente relativi.

Ritengo che l'adolescenza sia una fase della vita emotivamente complicata, difficilissima da raccontare. Spesso si tende a semplificarla, vengono evidenziati solo certi aspetti estremi, creando ragazzi caricatura, pieni di complessi fictionizzabili. Comunque vada non importa, un libro di Eleonora Caruso, a suo tempo non mi aveva convinto del tutto proprio per quella sensazione di problematicità esasperata e secondo me superficiale, profusa in tutto il libro.

In Short Term 12 la bravura del regista è stata quella di restituire la tenerezza a un'età così crudele. I personaggi sono di fatto adolescenti con gravissimi disturbi comportamentali, impregnati di tragedia perché di fatto hanno vissuto storie tragiche, che nulla hanno a che fare con i turbamenti degli adolescenti comuni. Nonostante ciò i protagonisti vengono dipinti con maestria senza ingigantire i particolari più traumatici, non serve. 
I personaggi acquisiscono una dimensione molto più ordinaria e meno sensazionale, ma più onesta e meno banale. 

Ne risulta un film sincero e pieno di grazia, secondo me di una bellezza rara.

mercoledì 12 febbraio 2014

I salvagenti

E' un uomo volenteroso, vorrebbe fare lo scrittore.
Fai lo scrittore, gli dice sua moglie, al resto ci penso io.
Si alza ogni giorno alla stessa ora: sette e trenta. Dentro il thè inzuppa cinque macine, quando le guarda galleggiare pensa al salvagente che usava da bambino, glielo aveva comprato suo zio in un'edicola di Jesolo vicino al mare. 

E' un uomo volenteroso, vorrebbe fare lo scrittore, ma è senza talento. Colleziona frasi e pensieri come fossero francobolli, un'accozzaglia di tasselli da ordinare con dedizione e senza fantasia. 
Indossa dolcevita scuri per sembrare più intelligente, invece perde solo una taglia.
La sua prima copertina è di cartoncino ruvido. L'ha scelta bianca perché gli piacciono gli Einaudi, ci arriverà, un giorno, si promette.
Sua moglie lavora anche il sabato per riuscire a pagare il nido ai loro figli, ha un contratto sicuro, si sente noiosa. Ogni tanto le piacerebbe lavorare a Milano per una rivista di moda.
Sei sempre sciatta, la rimprovera lui quando la vede con la tuta addosso.

Ai corsi di scrittura ha insegnato soprattutto quello che dicevano gli altri. Gli piace specchiarsi negli occhi dei suoi allievi, dentro i loro sguardi si sente al sicuro.
Una ragazza col viso fresco gli offre un aperitivo per parlagli di letteratura, lo chiama maestro. Con sua moglie è solo un padre, non gli basta.

Si è trasferito in un appartamento pieno di luce. La ragazza bella quando si sveglia ha gli occhi pieni di giovinezza, glieli bacia come faceva coi suoi bambini.
Fa colazione con cinque macine che gli sembrano salvagenti, gioca col cucchiaio per farle affondare.
Quando la  ragazza bella gli chiede cosa veda nella tazza lui mente: i cerchi mistici della vita.

E' un uomo volenteroso, vorrebbe fare lo scrittore. Annega il talento ogni mattina bevendo estati felici che a lui sembrano solo ricordi.



lunedì 3 febbraio 2014

Fine di una recessione

Con la pioggia anche i bambini sembrano vecchi.
Io sotto gli occhi ho la pelle più grigia, la copro con il correttore e serve a poco. Dovrei ridere e arrossire, invece sono solo truccata.

C'è un ragazzo che si è comprato un pitbull perché è disoccupato. Gli serviva un buon motivo per alzarsi e l'ha trovato. Vivono in un appartamento di cinquanta metri quadri senza giardino. Il cucciolo sta crescendo e ha bisogno di terra, corsa e odori per addormentarsi la sera senza avere voglia di sbranare una scarpa. Così annusano le strade, si sentono amici anche se in giro è solo bagnato e le pozzanghere ti fanno venire voglia di annegare.

Un giorno pioveranno solo coriandoli, ti prometto e tu mi sorridi. Cammineremo insieme e ci sentiremo migliori calciando le stelle filanti vicino ai marciapiedi. Fingeremo che sotto i colori l'asfalto profumi di pesco e non puzzi di marcio come sembra in questi tempi.

Dovrebbe arrivare l'estate, ci dicono, e invece è solo carnevale.

mercoledì 29 gennaio 2014

Cronaca allegra di un sabato pieno di panico.

Apro gli occhi e lo stomaco si chiude. Mi aspetto di vomitare almeno un paio di volte e invece no. La paura fa colare giù per l'intestino tutto quello che mangio, devo correre in bagno abbastanza spesso, tanto da avere il sedere irritato a fine giornata.

Per chi non lo sapesse sabato scorso ha debuttato in teatro il mio primo spettacolo. Ne scrivo soprattutto per quel somaro di mio zio che non è riuscito a venire e poi mi manda gli sms chiedendomi di parlarne qui sul Pesce.

Pioveva, pioveva tantissimo.

Arriviamo a Padova che le prove non sono ancora iniziate. Laura, l'attrice, si è lisciata i capelli, ha un po' di raffreddore e gli occhi concentrati. Parla da sola. Ha la voce fumosa, da contralto. Ripete il monologo e fa gli esercizi per scaldare la gola. Intanto gli altri montano la scenografia, che vedo per la prima volta ed è esattamente come Lorenzo me l'aveva descritta. Lo scenografo, Alberto Nonnato, se fosse un albero sarebbe un cipresso. Alto e silenzioso, mi stringe la mano con delicatezza e io mi sento eccessiva.
Parlo parecchio per esorcizzare la paura, che deve uscire in qualche modo, visto che non ho più un water a disposizione.

Decidiamo di andare in albergo e lasciare gli altri concentrarsi come si deve. In camera faccio una capriola sul letto matrimoniale come mi capitava da bambina. Svuoto il beauty case sopra il comodino e mi accorgo di non aver portato il fondotinta, grave mancanza, visto che intorno al mento è comparsa una costellazione di ponfi piuttosto evidenti. Se ancora non l'aveste capito tendo a somatizzare.
Parecchio.
Mi faccio un bel pezzo di strada sotto il diluvio per andare a ricomprarlo. Quando rientro mi butto sotto la doccia, cerco l'asciugacapelli in valigia. Non c'è, ma ritrovo il fondotinta vecchio.
Mi pare giusto.

Ci prepariamo e andiamo a mangiare da Paola che, secondo tradizione, ci cucina mezzo chilo di amatriciana piccante come facevamo all'università quando eravamo coinquiline. La birra alleggerisce i pensieri e cominciamo a prenderla in ridere. Arriviamo in teatro col cuor contento, un pochino troppo. Quando apro la porta e scopro la folla che aspetta, mi si ghiacciano i polmoni e divento di pessimo umore.

La postumità effettivamente può essere una misura drastica, ma efficace, per gli autori che come me soffrono di asocialità acuta.

Lo spettacolo inizia che il mio cuore corre all'impazzata. Si calma quando il pubblico comincia a ridere, con la coda dell'occhio controllo Lorenzo, che in regia traffica col mixer. Laura si trasforma e incanta. Alberto mi fa l'occhiolino e un cenno con la testa, sta andando tutto bene. Davanti a me c'è un uomo che continua a tossire e che a metà spettacolo ha la brillante idea di scartare una caramella facendo un sacco di rumore. Gli staccherei la testa con un destro a tradimento.

Il finale arriva presto con un sospiro di sollievo.
Ci sono gli applausi, mi costringono ad andare a prenderli sul palco, insieme all'attrice e al regista. Mi tremano un po' le gambe e non capisco più niente.

Poi è stato un carnevale e scrivere è ancora più bellissimo.


mercoledì 22 gennaio 2014

Due di uno

C'è un uomo che cammina per le strade sempre vestito da festa. Le camicie sono pulite, tutte perfettamente stirate, l'impermeabile è abbinato al colore dell'ombrello, che è abbinato al colore che ha la pioggia da queste parti. Grigio tristezza. I capelli gli sono caduti, quando è troppo freddo indossa un berretto scuro, come gli occhiali da sole, piccoli e rettangolari, potrebbe fare il preside. 
Invece cammina tutto il santo giorno, entra in libreria senza mai comprarsi nulla. Succede così, tutte le volte. 

Prendi un thriller, dice prima.
I thriller poi non ti fanno dormire. Predi De Carlo, si risponde.

Una commessa gli si avvicina sorridente, gli offre aiuto.
Lui la ringrazia e dice che non serve, comprerà Due di due, non c'è dubbio. La commessa cerca in best seller il libro della Bompiani, versione economica. Solo che improvvisamente il signore cambia voce, non se ne parla, esplode, io voglio un thriller, signorina, mi dia qualcosa di nuovo.

La ragazza cerca in pedana, gli porge un libro con la copertina nera e il titolo in rilievo. Poi se la fila.

Guardiamo l'uomo tenere in mano i due tomi: De Carlo sulla sinistra, Terry Hayes sulla destra. Se ne resta immobile, a fissarsi le dita che stringono i volumi. Ha unghie ben curate. 
Penso, ecco, adesso il corpo si divide a metà e ciascuna va per la sua strada. 
Invece no. 
Poggia i libri in un angolo nascosto del settore romanzi a sfondo storico. Poi esce, prende l'ombrello, e ricomincia a camminare.

A essere in due in un corpo solo si legge poco e ci si sente soli.

mercoledì 15 gennaio 2014

Tre minuti

Salgo sul ring dopo un'ora abbondante di allenamento che mi distrugge le spalle e rende difficoltoso il respiro.
Più decentemente combatto meno pietà hanno i miei avversari, che in quanto unica donna hanno sempre avuto il buon gusto di andarci piano. Io mica tanto, nel senso che come moscerino ho sempre cercato di infastidire il più possibile i miei giganti, buoni e pazienti, qualcuno mi fa lo sgambetto qualche altro diventa rosso quando lo guardo negli occhi.
Salgo sul ring e dopo un anno e mezzo di flessioni le mie braccia sono diventate robuste, il pugno veloce. Riesco a chiacchierare anche col paradenti, sbavando un po', ma tanto sbavano tutti.
Suona il campanello e cominciano i tre minuti: dobbiamo darcele di santa ragione, per finta, di solito. Sono particolarmente gasata e dopo i primi diretti parati con destrezza o più probabilmente, particolare fortuna, vado a segno con un jab sul mento del nemico, che comunque ha il caschetto e viene ferito solo nell'orgoglio.
Smetto di essere femmina e cominciano i colpi veri.
Cerco di muovermi il più possibile, come ogni volta mi ricorda di fare l'allenatore, per stancare l'avversario e metterlo all'angolo. Il dettaglio che uno non considera è che più si fa stancare l'avversario più ci si stanca.
Sento i polsi diventare di piombo, fatico a tenerli alzati per coprirmi il viso. Non ho neanche il tempo per pensarlo che il mio avversario mi tira un gancio sulla mandibola, sento la faccia ruotare e il collo schioccare come i gusci di noce. Capisco l'utilità degli esercizi alla cervicale, che ho sempre snobbato perché poi mi viene la nausea.
In bocca ho un sapore di ruggine, tre minuti sembrano un'eternità, qualche volta.
Mi lascio prendere dalla stanchezza e di conseguenza mi becco un altro destro, sugli occhi questa volta. Non mi fa male, ma comincio a lacrimare come se piovesse.
Sono solo corpo, non ci sono più i libri, le considerazioni, le opinioni, il passato e il futuro. Mi sento viva.
E finalmente mi do una svegliata.
Paro i colpi e mi accorgo che il mio nemico usa una sequenza ripetitiva. La imparo a memoria, così la blocco. Riesco ad aprire la strada con un diretto sinistro e a piazzare il più bel gancio della mia breve carriera di pugile. Prendo il mio gigante giusto sull'orecchio, lo stordisco e con un impeto di coraggio - o totale incoscienza- punto il fegato.
Mi piego sulle ginocchia, divento piccola e mi catapulto in avanti.
Gli entro così bene nel ventre che un po' mi dispiace. Dura poco. Vengo travolta da altri due compagni che si stanno esercitando sopra il ring, mi investono come un treno ad alta velocità. Non si accorgono di niente. Mi busco una spallata fuori programma che mette ko la mia spavalderia.
Mi scanso e invoco la campana per attaccarmi agli elastici e farla finita. Anche il mio avversario ha gli occhi stravolti, gli dico e se la smettessimo un po' prima?  Uso le ultime energie per un occhiolino di disperazione. Funziona.
Si toglie i guantoni, si asciuga il sudore.

Se non diventerò scrittrice sapete dove trovarmi.

martedì 7 gennaio 2014

Prosciutto gatto

Ballarò detto Gnogni è stato il mio primo gatto. Dormivamo insieme quando ancora stavo in culla, bei tempi. Mia madre l'aveva portato in campagna da mia nonna, perché in estate riempiva di peli l'appartamento al quinto piano.

Da bambina tiravo tutte le code dei gatti cui passavo accanto come fossero state le corde delle campane la domenica mattina.
Una volta ci avevo messo troppo a scappare, Ballarò si era voltato e si era aggrappato al mio polpaccio, stringendolo bene con le unghie, tutte, e poi affondando i denti, tutti.
Portavo i pantaloncini corti e i calzettoni ricamati tirati su fino alle ginocchia. Avevo urlato, così mia nonna era corsa fuori e mi aveva preso in braccio. Le avevo piantato il muso perché voleva medicarmi e peggio del gatto era l'acqua ossigenata. Così le avevo proibito di abbassarmi i calzini e di controllare le ferite, che più che altro erano puntini rossi, avevamo guardato Beautiful in silenzio e io per consolazione avevo ricevuto una dose doppia di Fiorello e miele.

Mi è venuto in mente ieri, a pranzo, all'improvviso.

Per anni ho chiamato il prosciutto crudo prosciutto gatto, perché mi ricordava l'odore di Gnogni, mi rifiutavo di mangiarlo perché mi pareva che sapesse di baffi e croccantini e io i croccantini li avevo assaggiati davvero e facevano schifo.

Ballarò è morto investito, litigando con un gatto rosso, probabilmente per amore. Avevo nove anni, l'abbiamo messo in una bacinella azzurra e poi l'abbiamo seppellito in giardino, il primo di una lunga serie. La terra e gli anni hanno sbiadito i gusti e gli odori e a poco a poco anche i miei pensieri. Ho dimenticato il prosciutto gatto e ho cominciato a mangiare il prosciutto crudo senza fare storie.

Quando ero bambina è sempre più tempo fa ed è un peccato poter solo ricordare, sempre un po' peggio.